Articolo di Wasim Dahmash pubblicato su "Rinascita"

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Non c'e' dubbio che la vittoria dell'esercito israeliano nella guerra dei sei giorni del 1967 sia stata schiacciante. Le conseguenze di quella vittoria hanno modificato profondamente gli equilibri mediorientali. Lo Stato d'Israele, che prima della guerra si estendeva sul 78% del territorio della Palestina mandataria, occupa oggi l'intero territorio palestinese oltre a territori libanesi, giordani e siriani. Lo Stato d'Israele ha formalmente annesso Gerusalemme e l'altipiano siriano del Golan. Insediamenti israeliani sono sorti nei territori occupati e centri abitati palestinesi sono stati cancellati. Sono state costruite decine di migliaia di abitazioni per coloni israeliani e sono state demolite decine di migliaia di abitazioni palestinesi. Le strade che collegano gli insediamenti dei coloni tagliano, frammentandoli, i territori ancora abitati dai palestinesi. Le strade che collegano i centri palestinesi vengono sistematicamente distrutte e comunque interrotte da posti di blocco che sono delle vere fortezze militari. Centinaia di migliaia di palestinesi sono stati espulsi in seguito a quella guerra e centinaia di migliaia di nuovi coloni sono arrivati, soprattutto dall'ex Unione Sovietica e dagli Stati Uniti.

Il processo di trasformazione del paese "Palestina" nel paese "Israele" e' proseguito e prosegue tuttora con ogni mezzo. Tutto quindi sembra indicare che il successo militare stia dando i suoi frutti politici. In questi quaranta anni la leadership israeliana ha conseguito alcune importanti conquiste politiche. Gli accordi di Camp David hanno neutralizzato l'Egitto mentre gli accordi di Oslo, introducendo milizie armate palestinesi nei territori occupati, hanno posto le condizioni per una guerra civile palestinese.
Tuttavia, il progetto sionista, nel suo complesso, non puo dirsi realizzato. In quaranta anni di incessanti sforzi, di continue confische di terre palestinesi, di sistematica distruzione delle coltivazioni con le ruspe, di incessanti sequestri delle fonti d'acqua, di requisizione dei pascoli, i territori occupati nel 1967 continuano ad essere abitati da una schiacciante maggioranza di autoctoni. Il costante stillicidio di morti palestinesi non ha modificato in maniera incisiva gli equilibri demografici. La pulizia etnica attuata nel biennio 1947-49 nei territori che le truppe inglesi consegnarono ai gruppi armati sionisti, non poté essere ripetuta. e' vero che nel 1967 l'ondata di profughi dalla Cisgiordania fu consistente, avendo coinvolto meta' della popolazione, ma la situazione in cui si realizzo era diversa. Nel 1947-49 una particolare congiuntura internazionale favorevole, in seguito alla II guerra mondiale e al genocidio degli ebrei europei attuato dai nazisti, aveva permesso ai gruppi armati sionisti di compiere una massiccia pulizia etnica. Nei territori dove era sorto lo Stato d'Israele si compose così una maggioranza ebraica. Una minoranza di palestinesi che non poté essere allontanata visse rinchiusa tra il 1949 e il 1967 in ghetti chiusi dentro le citta' palestinesi occupate dagli israeliani o nei villaggi sottoposti al coprifuoco e alle leggi d'emergenza.
Oggi si tenta di ripetere lo stesso esperimento nei territori acquisiti con la guerra del 1967. Chi guardi la mappa degli insediamenti israeliani e delle aree militari chiuse puo facilmente osservare come si procede a rosicchiare il territorio e a rinchiudere progressivamente la popolazione palestinese in tre aree circoscritte: la cosiddetta "striscia" di Gaza al sud e due aree in Cisgiordania, una al nord con al centro Nablus e una al sud entro il triangolo Hebron-Betlemme-Gerico. Le ultime due aree sono a loro volta frammentate da una serie di colonie israeliane insediate sulle cime delle colline e collegate tra di loro in modo da costituire un sistema di controllo militare del territorio. Il muro che si sta costruendo intorno a queste aree dovrebbe servire a rinchiudere definitivamente gli indigeni superstiti in attesa di condizioni favorevoli per espellerli. All'interno dei recinti così creati, un'autorita' indigena, finanziata, armata e dipendente dall'esterno, renderebbe più semplice il controllo di una popolazione irrequieta. L'obiettivo a breve termine e' quello di spostare il conflitto in campo palestinese. In una fase transitoria, le aree indigene chiuse possono servire per far sorgere un'effimera struttura statuale palestinese. Cio permetterebbe, tra l'altro, e nell'ambito di un programma di "scambio di popolazioni", di "trasferire" i cosiddetti "arabi israeliani", cioe' i palestinesi rimasti nei territori dove e' sorto lo Stato d'Israele.
Tuttavia questa politica, fin qui seguita con determinazione dai governi israeliani, non sembra avere sbocchi. Nel territorio della Palestina storica, cioe' in tutta la terra oggi occupata dagli israeliani, dal Mediterraneo al Giordano, la popolazione autoctona, cioe' i palestinesi, continua ad essere la maggioranza. Nel 1947, Judah Magnes presidente dell'Universita' Ebraica, contrario al progetto sionista, scriveva: "uno Stato ebraico puo essere ottenuto, se mai lo sara', solo con la guerra". E tutte le guerre finora condotte non hanno portato Israele al possesso esclusivo del territorio palestinese. La ben nota formula sionista: "una terra senza popolo a un popolo senza terra" e' smentita ogni giorno dalla realta'. La dirigenza sionista non e' mai riuscita né a rendere la Palestina senza popolo né ad attrarre tutti gli ebrei in quella terra.
Wasim Dahmash

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